[di Rino Formica]
Tra poche ore avverrà un fatto di straordinaria rilevanza, dunque saremo schietti. Il 5 novembre per la prima volta il grande paese, che è stato sentinella della libertà propria e di quella degli altri, affronta una campagna elettorale con un sottinteso: un’elezione che sarà utilizzata per sancire il principio che è inutile votare. Una straordinaria contraddizione, che ci dà la misura della corposità della crisi della democrazia, quella garantita costituzionalmente dalle grandi rivoluzioni democratiche della fine del Settecento; la cui crisi, in questi ultimi trent’anni, non è stata affrontata. Inconsapevolmente, almeno in alcuni casi, oggi si prende atto che è inutile insistere; che la democrazia come forma di ordinamento dei grandi stati e delle grandi unità sovranazionali non è sostenibile perché non ha saputo imboccare la via della sua modernizzazione.
Negli Usa, come in tutte le democrazie occidentali, si è affermato, dopo le terribili esperienze del 900, che mantenere la democrazia costa, ma è indispensabile: e che al di là di essa non c’è che una drammatica parola, pesante, ma che è venuto il momento di pronunciare: la guerra civile.
Cos’è la guerra civile? Nelle democrazie mature è l’apertura di una fase nella quale il distacco fra popolo e istituzioni democratiche è definitivo. È lo scatenamento delle forze brutali e violente fin qui tenute a bada dalle istituzioni e dalle costituzioni. A differenza delle guerre fra stati, la guerra civile non è regolabile con atti di buona volontà. Si affievolisce o si estingue con atti di distruzione continua. Se ne conosce solo l’inizio.
Se dovesse verificarsi negli Usa, non coinvolgerebbe solo le condizioni umane, civili, sociali e morali di quel paese, ma investirebbe tutta la sua presenza diffusa nel mondo; e gli Usa sono ovunque, con presidi civili, economici, e militari. La sua proiezione nel mondo porterebbe a focolai imprevedibili. La più colpita sarebbe l’area delle democrazie occidentali, e non parlo di quelle piccole e titubanti come l’Ungheria e la Moldavia, ma delle centrali della democrazia europea.
Pensiamo all’Italia. Negli Usa il rischio della guerra civile nasce dalla sottovalutazione della politica trumpiama, della sostituzione della dialettica democratica con lo scatenamento delle forze bestiali, e dunque dalla debolezza della resistenza. I democratici non sono stati all’altezza dei loro proclami, non hanno agito per compiere un’azione legale e politica di massa.
In Italia, ma anche in alcuni paesi d’Europa, il virus si diffonde con un’altra operazione, fin qui meno cruenta, ma solo per ora: il distacco fra popolo e rappresentanza. L’allargamento e l’alimentazione dell’area dell’indifferenza di fronte alla questione centrale della democrazia, cioè è il rapporto fra popolo e istituzioni. Avviene attraverso l’incapacità, in alcuni casi alla sufficienza di fronte alla necessità di strappare dall’area del non voto la maggior parte possibile di popolo. Ma è il cuore del funzionamento della democrazia: quando le rappresentanze non sono sentite dal popolo, la democrazia decade.
C’è una formula utilizzata da questi che fra loro si chiamano «consiglieri», ma in realtà sono poco più che badanti, assistenti: dicono costantemente che si è a un “testa a testa”. Una formula che potrà anche essere mobilitante nell’elezione del presidente americano, perché si tratta di una grande questione nazionale e mondiale. Ma quando questo argomento viene utilizzato nelle campagne elettorali locali, e in queste ultime liguri si è sentito utilizzare, è una trappola: più che mobilitare le forze democratiche, chiama a raccolta le ciurme affamate della periferia che accorrono a sostenere il governo uscente.
Dobbiamo sapere che il “testa a testa” è un inganno, e lo dico in particolare per l’Umbria dove, come è stato in Liguria, la destra ha il vantaggio di avere in mano lo strumento del potere del governo.
“Testa a testa” si è già rivelata la formula artificiosa, capace di far sentire la sinistra in gara in una competizione a cui metà dei cittadini non intendono partecipare. Ma così la gara non c’è.
Non aver voluto affrontare la crisi della democrazia nel nostro paese significa aver aperto la via italiana per la guerra civile. Che nasce qui dall’indifferenza, dal mancato aggiornamento delle forze del progresso, dal mancato rinnovo delle classi dirigenti. Negli ultimi trent’anni si è pensato, prima, che la crisi fosse la mancanza degli interventi giudiziari; poi, ora, si è rovesciata la frittata contro gli interventi intrusivi giudiziari. Ci si è affidati a tutto e al contrario di tutto: si è passati dall’economia pubblica all’esaltazione dell’economia privata, per poi scoprire che l’economia privata è solo assistenziale dunque tornare a quella pubblica. In definitiva, non si è trovato un nuovo incontro fra modernità e nuove forme di partecipazione.
Fermare il rischio della guerra civile in Usa è fondamentale, per evitare che il trumpismo corroda ogni residua possibilità di resistenza democratica. Per prepararci a casa nostra dobbiamo recuperare la capacità di incidere sull’astensionismo. Solo così si potrà smontare il sostegno, silenzioso e indecente, dell’elettorato astensionista alla destra: perché prepara alla guerra civile all’italiana.
Altro che “testa a testa”: nelle future competizioni regionali bisogna resistere alla lusinga, alla fantasia di essere già arrivato alla soglia di una vittoria. Perché la gara è impari: qui non vince più né destra né sinistra, vince la prospettiva della conclusione drammatica della crisi della vita democratica. Questo mese di novembre, con le esperienze elettorali grandissime e piccole, potremmo assistere al rovesciamento di una condizione che oggi appare segnata. Ma bisogna avere capacità, e fiducia, nel fatto che il legame fra popolo e democrazia non sia reversibile.