Referendum giustizia: perché Sì
Di Nicole Vinci
Avvocata e consigliere nazionale dell’Associazione Nazionale Forense.
l referendum è uno dei principali istituti di partecipazione diretta dei cittadini alla democrazia. I 5 quesiti referendari che si potranno votare il prossimo 12 giugno rientrano nella tipologia di referendum chiamato “abrogativo” e previsto dall’art. 75 della Costituzione che al comma 1 recita «è indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge». L’obiettivo del referendum è smuovere il Parlamento che, in relazione alla Giustizia, soggiace alle spinte conservatrici che ostacolano quei tentativi riformisti che provano a dar voce ad una necessaria richiesta di riforma. Richiesta rimasta, però, finora priva di un riscontro fattivo e pragmatico.
Per tali motivi e per i motivi di cui si dirà più avanti, è di fondamentale importanza andare a votare, al fine di garantire il raggiungimento del quorum.
I 5 quesiti referendari non renderanno la giustizia “giusta”, perché i problemi della giustizia italiana sono tanti e sono necessarie (delle ben fatte) riforme più ampie e organiche. Tuttavia essi possono sia contribuire a un miglioramento della situazione, sia – forse soprattutto – dare un messaggio politico sull’importanza del tema e l’urgenza di una riforma.
Inoltre, il 16 maggio scorso, quando la riforma Cartabia sull’ordinamento giudiziario – oggetto del referendum – è passata al Senato, l’Associazione Nazionale Magistrati ha proclamato l’astensione dei Magistrati.
Lo sciopero è uno strumento di azione politica previsto dalla Costituzione, per cui è del tutto legittimo il suo utilizzo in ambito anche di politica giudiziaria e se la Magistratura (in verità anche l’Avvocatura) nutre delle perplessità rispetto a taluni contenuti della riforma Cartabia è legittimo rappresentarle, ma l’uso dell’astensione è apparso uno strumento per influenzare la funzione legislativa. Un’invasione di campo di uno dei tre poteri dello Stato, quello giudiziario, nei confronti di un altro, quello legislativo, che perplime e non poco. Una malcelata intolleranza alla riforma dell’ordinamento giudiziario che non è passata inosservata e che dovrà spingere (ancor di più) i cittadini al voto.
Nascita del referendum sulla giustizia
I 5 quesiti, prima di arrivare al voto del 12 giugno, hanno dovuto superare un iter prestabilito. Infatti, dal 2 luglio 2021 sono state raccolte le firme necessarie – almeno 500 mila – come previsto dall’art 75 della Costituzione, per indire il referendum popolare abrogativo. L’iniziativa è stata assunta dal Partito Radicale e dalla Lega, i cui rispettivi segretari – Maurizio Turco e Matteo Salvini – sono anche copresidenti del comitato promotore “Giustizia giusta”, il cui intento principale è incidere su alcuni degli aspetti più significativi e al tempo stesso controversi del sistema giustizia del nostro Paese. Dapprima i quesiti referendari hanno dovuto superare il controllo di legittimità della Corte di Cassazione e successivamente sono passati al vaglia della Corte Costituzionale, che ha effettuato un giudizio di ammissibilità dei quesiti – valutazione che non è stata superata per un sesto quesito referendario sulla giustizia che atteneva unicamente alla responsabilità civile dei Magistrati, come avvenuto anche per i quesiti sull’eutanasia attiva e sulla cannabis dichiarati tutti inammissibili dalla Corte Costituzionale.
La votazione del prossimo 12 giugno sarà ritenuta valida se vi prenderà parte almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto, vale a dire se verrà raggiunto il quorum c.d. costitutivo. Una volta raggiunto il predetto quorum, dovranno essere calcolati i voti favorevoli e i voti contrari e, nella ipotesi in cui i voti favorevoli raggiungeranno la maggioranza (quorum detto funzionale o deliberativo), il Presidente della Repubblica proclamerà con decreto
l’esito della votazione del referendum abrogativo, dichiarando l’avvenuta abrogazione della legge o di parte di essa.
I primi tre dei cinque quesiti hanno per oggetto la materia tecnica dell’ordinamento giudiziario, gli ultimi due, invece, coinvolgono il primo uno degli istituti della giustizia penale di maggiore impatto concreto, sia sul piano
delle conseguenze per la libertà personale che per i suoi riflessi mediatici: le misure cautelari. Il secondo riguarda uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione dell’ultimo decennio, il c.d. decreto Severino.
I cinque quesiti
1. Il primo quesito «riforma del CSM».
Il Csm (Consiglio Superiore della Magistratura) è l’organo di autogoverno della Magistratura. Ne fanno parte, per diritto: il Presidente della Repubblica, che lo presiede, il primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i Magistrati (componenti chiamati membri togati), per un terzo dal Parlamento in seduta comune (componenti chiamati membri laici). Se oggi un Magistrato si vuole proporre come membro del Csm deve raccogliere almeno 25 firme di altri Magistrati a sostegno della sua candidatura. L’abrogazione della norma consentirebbe al singolo Magistrato di presentare la propria candidatura
senza ricercare preliminarmente alcun supporto. Il singolo Magistrato potrebbe cioè presentare la propria candidatura in autonomia e liberamente senza il supporto di altri Magistrati e senza, soprattutto, l’appoggio delle “correnti” politiche interne al Csm (correnti che spesso si sovrappongono alle tendenze politiche di centro, sinistra e destra). Si tornerebbe, quindi, alla legge originale che dal 1958 regola il funzionamento del Csm.
Il quesito referendario:
«Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?».
La finalità dichiarata del referendum è ridurre il peso delle correnti nella individuazione dei candidati e, in prospettiva, diminuire il potere delle correnti nell’ambito del CSM, rimettendo al centro la valutazione professionale e personale del singolo al di là dei suoi diversi orientamenti politici.
2. Il secondo quesito «equa valutazione dei magistrati»
La professionalità dei Magistrati, ogni quattro anni, è oggetto di valutazioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari che si esprimono con pareri motivati, ma non vincolanti. Il corpo normativo di
riferimento (d.lgs. 25/2006) regola la composizione e le funzioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli Giudiziari. Tra i principali compiti di questi ultimi, operanti a livello distrettuale, vi è la formulazione di pareri finalizzati alla valutazione di professionalità dei magistrati da parte del CSM; analogo compito è svolto dal Consiglio direttivo in relazione ai magistrati in servizio presso la Suprema Corte o la Procura Generale. Entrambi gli organi hanno composizione mista: accanto ai magistrati ne fanno parte esponenti dell’avvocatura e professori universitari (oltre che, a livello locale, un rappresentante dei giudici di pace). Il quesito chiede che la componente laica – avvocati e in alcuni casi professori universitari in materie giuridiche – del Consiglio direttivo della Cortedi Cassazione e dei Consigli Giudiziari non sia esclusa da tali discussioni e valutazioni che hanno a che fare con la professionalità dei magistrati. Oggi, avvocati e docenti partecipano come gli altri membri all’elaborazione di pareri su diverse questioni tecniche e organizzative, ma sono esclusi dai giudizi sull’operato dei magistrati, in base ai quali, poi, il CSM dovrà procedere per fare le valutazioni di professionalità. Solo i magistrati, dunque, hanno il compito di giudicare gli altri magistrati.
Il quesito referendario:
«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?».
La finalità dichiarata del referendum è rendere più oggettivi e meno auto referenziali i giudizi sull’operato dei magistrati con la partecipazione di soggetti estranei all’ordine giudiziario.
3. Il terzo quesito «separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti»
La funzione requirente è quella del Pubblico Ministero, che in un processo è il Magistrato che rappresenta l’accusa. La funzione giudicante è quella del Giudice del processo, Magistrato anch’esso ma super partes perché chiamato a giudicare. Oggi i magistrati, nel corso della loro vita professionale, possono passare da una funzione all’altra, con delle limitazioni, per non più di quattro volte. L’abrogazione voluta dal referendum eliminerebbe del tutto la possibilità per i Magistrati di passare una o più volte dalla funzione giudicante a quella requirente (o viceversa) durante la propria vita professionale.
Il quesito referendario:
«Volete voi che siano abrogati: l’“Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, Comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a
quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché’ sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.”?»
La finalità del referendum è separare nettamente le due funzioni: a inizio carriera il magistrato dovrebbe dunque scegliere o per la funzione giudiante o per quella requirente, senza più la possibilità di passare dall’una all’altra, al fine di evitare una contiguità tra giudici e pubblici ministeri, finora consentita, dalla perdurante possibilità di mutamento delle funzioni. Una netta separazione tra i magistrati che accusano e quelli che giudicano comporterebbe una maggiore equità e indipendenza nei processi al fine di non perdere mai di vista l’obiettivo di quella “giustizia giusta” richiamata anche nel nome del comitato dei promotori del referendum.
4. Il quarto quesito «limiti agli abusi della custodia cautelare».
La custodia cautelare è prevista dall’art. 274 del codice di procedura penale che disciplina le misure cautelari. Le misure cautelari sono dei provvedimenti emessi nel periodo intercorrente tra l’inizio del procedimento penale e l’emanazione della sentenza. Vengono adottati dall’autorità giudiziaria per evitare che si verifichino alcuni pericoli: 1) difficoltà nell’accertamento del reato; 2) difficoltà nell’esecuzione della sentenza; 3) possibilità che vengano compiuti altri reati o che si aggravino le conseguenze di un reato. Il referendum mira a restringere l’ambito delle esigenze cautelari che consentono l’applicazione di una misura, proponendosi di intervenire sul c.d. pericolo di reiterazione del reato di cui alla lett. c) dell’art. 274 c.p.p. c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali é prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni. Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede.
Il testo della disposizione all’esito dell’abrogazione sarebbe il seguente: «Le misure cautelari sono disposte: […] c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamen ti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede».
Sarebbe dunque eliminata la possibilità di motivare una misura con il solo pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, ipotesi in cui peraltro l’art. 274 lett. c) c.p.p., nella parte oggetto del
referendum, già limita l’applicabilità della custodia cautelare, con condizioni ancor più stringenti per la custodia cautelare in carcere.
Il quesito referendario:
«Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?»
La finalità del referendum è eliminare una prassi negativa fin troppo con solidata: l’abuso della custodia cautelare, che giustifica, quasi in automatico, forme di restrizione della libertà, in assenza di un accertamento definitivo della responsabilità penale, non corrispondenti a una effettiva pericolosità del reo.
5. Il quinto quesito «abolizione del decreto severino».
Il decreto legislativo che il referendum vuole abrogare è meglio conosciuto come “decreto Severino” uno dei decreti legislativi (n. 235/2012 ) emanati in attuazione della omonima legge (n. 190/2012) – recante il nome della Ministra della Giustizia dell’allora Governo Monti – che rappresenta uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione dell’ultimo decennio. Il decreto in questione prevede una serie di misure per limitare la presenza nelle cariche pubbliche elettive di soggetti autori di reato: a) il divieto di ricoprire incarichi di Governo, l’incandidabilità/ineleggibilità alle elezioni politiche o alle elezioni amministrative, ovvero la decadenza da tali cariche, in caso di condanna definitiva per determinati delitti, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto stesso e b), in caso di condanna non definitiva, la sospensione per 18 mesi dalla carica in via automatica (opzione legislativa di recente giudicata legittima dalla Corte costituzionale con la recente sentenza n. 35/2021).
Per quanto riguarda, per esempio, le cariche di deputato, senatore e membro del Parlamento Europeo la condanna che fa scattare l’applicazione della legge è a più di due anni di carcere per reati di allarme sociale (come mafia
o terrorismo), per reati contro la pubblica amministrazione (come peculato, corruzione o concussione) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni. Il decreto Severino stabilisce poi dei criteri anche per quanto riguarda l’incandidabilità alle cariche elettive regionali o negli enti locali.
Del decreto Severino viene chiesta l’abrogazione integrale. Se ciò avvenisse, torneranno a essere i Giudici a decidere, caso per caso, se in caso di condanna sia necessario applicare o meno come pena accessoria anche l’interdizione dai pubblici uffici.
Il quesito referendario:
«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?»
La finalità del referendum è permettere anche ai condannati in via defi nitiva di candidarsi o di continuare il proprio mandato, cancellando l’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva, dannoso per le persone coinvolte e non solo, in quanto la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato finora «vuoti di potere» e ha portato alla sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati al loro posto.
Sovrapposizione totale e parziale dei quesiti con la riforma Cartabia
Alcuni dei quesiti referendari intervengono su questioni già affrontate dalla riforma strutturale della giustizia su cui sta votando il Parlamento. Dopo la riforma del processo penale e di quello civile, già approvate in via definitiva lo scorso settembre e novembre, in aprile la Camera dei Deputati ha appro– vato anche la riforma che riorganizza in senso ampio il CSM. Ora il testo, passato al Senato, se verrà approvato potrà sovrapporsi con tre dei cinque quesiti referendari: sono quelli che riguardano le modalità di elezione dei membri togati del Csm, le modalità di valutazione della professionalità dei magistrati e la separazione delle funzioni. Per quanto riguarda le modalità di elezione dei membri del CSM scelti dalla Magistratura, la riforma, con l’obiettivo di ridurre il peso delle correnti interne, stabilisce che l’elezione avvenga con un sistema misto, maggioritario e proporzionale, al fine di evitare clientelismi, lottizzazioni delle cariche, avanzamenti di carriera legati all’appartenenza politica, in favore di una maggiore neutralità ed efficienza dell’organo.
Inoltre, esattamente come prevede il referendum, la riforma stabilisce che la candidatura non sia sostenuta da una raccolta firme e che sia individuale. In questo caso, dunque, quesito referendario e riforma si sovrappongono. Per quanto riguarda la valutazione degli avvocati, invece, non c’è coincidenza. La riforma Cartabia prevede che solo la componente degli avvocati e non quella dei docenti universitari ottenga la facoltà di esprimere un voto sulla professionalità dei magistrati e solo dopo un preventivo parere dell’Ordine. Il referendum chiede invece la possibilità di un voto deliberativo sia degli avvocati che dei docenti universitari.
La sovrapposizione tra riforma Cartabia e referendum è parziale anche per quanto riguarda la separazione delle funzioni dei magistrati: la riforma prevede che sia possibile fare il passaggio di funzioni da Giudice a Pubblico Ministero (e viceversa) una sola volta nei primi dieci anni di carriera, mentre il referendum non ne prevede nessuno. Tale sovrapposizione cosa comporta? La legge che disciplina il referendum, n.352 del 1970, prevede che se la nuova legge interviene andando a soddisfare il fine del referendum, il referendum non avrà più corso. E a deciderlo sarà l’Ufficio centrale per il referendum, cioè la Corte Suprema di Cassazione, che è tenuta appunto a valutare se c’è un’effettiva concordanza di obiettivo tra legge e referendum. Questo scenario potrebbe profilarsi solo per il primo quesito (modalità di elezione dei membri togati del CSM), ma visti i tempi ristretti, è improbabile che ciò possa avvenire. Diverso è per gli altri due citati quesiti referendari, che si sovrappongono parzialmente a quanto previsto nella riforma Cartabia, pertanto, in caso di approvazione della riforma prima della data dei referendum, la Corte di Cassazione deciderà che quei due quesiti si votino comunque, ma, successivamente si dovrà effettuare una valutazione di merito. Il parlamento, dunque, una volta approvati i referendum, potrebbe o decidere di farsi carico del loro esito e modificare la riforma Cartabia in modo corrispondente o proseguire con l’approvazione della riforma così com’è, con il rischio che i promotori del referendum azionino un contenzioso.
Si potrebbe obiettare che, a questo punto, votare rischia di essere inutile, ma non è assolutamente così. A dispetto delle intenzioni riformiste della Ministra Cartabia, è ben possibile che – in seguito alle modifiche parlamentari – la sua proposta di riforma venga annacquata o che addirittura il Governo lasci cadere il disegno di legge delega o traduca in norme precettive solo una parte della delega.
Quindi, una vittoria dei sì – in particolare nei primi quattro quesiti, relativi al funzionamento della giustizia – può rappresentare sia un pungolo affinché Parlamento e Governo proseguano sulla via della riforma, sia un “paracadute” nel caso in cui essa dovesse, per qualunque ragione, interrompersi.